Ci piacciono i giardini. E i semi che a quei giardini, se ci credi e ne hai cura, ti conducono.
Sono giardini di storie. Quelle che troviamo ogni venerdì pomeriggio, quando ci incontriamo per leggere, nei libri. Ma giardini di storie sono anche le nostre vite, i nostri singoli destini che ogni venerdì, alla stessa ora, noi affacciamo su un cerchio dove sta al centro, un tavolo dipinto alcuni anni fa da noi stessi. Su quel tavolo poggiamo i libri, le cioccolate in inverno, la coca cola d’estate anche a se a me non piace. Da quel cerchio, da quel confine tu puoi vedere il nostro giardino. E alzandoti dalla sedia, entrarci dentro. A turno innaffiamo le piante che ci crescono, sono alberi sempre più alti e ombrosi, e a turno facciamo gli umili lavori che servono al giardino e a noi stessi. Leggere ad alta voce è la linfa che scorre in questo giardino. Liberiamo dalle voliere, senza che quelli facciano più ritorno, storie autori personaggi luoghi che girano ormai insieme a noi in questa città in cui facciamo crescere, pianopiano, come è d’obbligo per l’albero, una fraternità cucita con libri d’avventura.


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giovedì 17 settembre 2009

da un uccello in cattività


Una voliera di libri.
Da quando sono piccola ho letto centinaia e centinaia di pagine. Di romanzi più che di libri di scuola. Di primo pomeriggio, d’estate, stesa bocconi sul letto mentre il sole che filtrava dagli spazi regolari della serrande di legno verde, faceva danzare all’impazzata la polvere che attraversata da quella diagonale di luce, pareva la polvere d’oro di un incantesimo: quello della fata della lettura. Ero anch’io sospesa, e presa in quella danza che le parole e la storia chiusa in un libro e finalmente liberati da me, mettevano in movimento. Ho volato decine di volte nei tempi storici e negli spazi e negli abiti degli altri. Sono stata maschio e femmina e pure giovane e vecchia sono stata e continuo ad esserlo ogni volta che mi imbraco sulle spalle quelle decine di pagine che mi fanno volare. Alzare da terra. Ho conosciuto decine di sentimenti, patito la tristezza, ho pianto. Ho temuto per la vita di qualcuno chiuso in un libro come se temessi la mia propria. Ho raccontato tanti anni fa, in diverse forme, l’amore che ho portato e porto per le storie. Due anni fa raccontando a bambini di cinque anni e di sei, una storia scritta da David Grossman, ho costruito un uccello; era giallo e nero e le sue ali erano formate dalle pagine di quel racconto. Per leggerlo ho dovuto liberare quell’uccello di carta dalla gabbia. E esso, il racconto di Itamar che non ha paura, ha preso a svolazzare fra di noi. Eravamo in cinquanta in una sala grande e piena di luce. Quell’uccello l’ho regalato. Alla fine di quell’anno scolastico a un bambino che non sapeva, perché nessuno glielo aveva insegnato, a rispettare le regole. Era prigioniero della nostra debolezza, di noi adulti. Fa pena adesso ricordare quell’episodio, alla luce di quanto sta accadendo in questo paese. Da decenni si va affermando una cultura che afferma l’apparire individuale come unica forma di comunicazione con gli altri. Sono i corpi e la loro semplice elementare, primitiva legge estetica, a governare le scelte i comportamenti i sentimenti i valori. Non ci sono più, da molti anni, regole condivise. Vivo in un paese dove le regole cambiano a seconda della convenienza personale di chi detiene il potere. Non è più la democrazia. Un sistema di governo che tutela le minoranze e promuove l’uguaglianza attraverso la giustizia. Non siamo più un paese di adulti. A Marco ho regalato un uccello che è nato in cattività. Forse è meglio che se ne stia là dentro. Che non si muova che non agisca. Perché se decide di farlo il suo volo non può che provocare danni. A se stessi certamente. Ma a noi stessi provochiamo danni ormai anche se restiamo nella gabbia. La storia che si è svolta mentre noi crescevamo ci ha messo con le spalle al muro. Non possiamo allontanarci da quel muro senza affrontare la pena, il dolore di un cambiamento che non può essere più rimandato. E non possiamo restare fermi addossati a quel muro perché la storia va avanti e quel muro presto crollerà trascinandoci dietro. Siamo la generazione che deve pagare il conto che i nostri genitori non hanno voluto pagare. Siamo figli di una generazione egoista che si è chiusa nei suoi privilegi. Ma noi dobbiamo andare. Io non ce la farò ma Amalia e Alvaro, i miei figli, e i nostri, perchè un figlio appartiene a una nazione intera e oggi a un pianeta, ce la devono fare. Gli errori devono essere riparati. E i costi assunti. Le migliaia di pagine che ho letto fino ad oggi, stesa bocconi sul mio letto di bambina o stesa a pancia in su di notte, nel mio letto di moglie e poi di mamma, addentando le pagine a morsi di stanchezza non possono stare più ferme. La porta della gabbia è aperta. Sarò capace di volare fuori dalla mia voliera? Ho nelle braccia milioni di linee di scrittura, a partire dal Lampionaio, attraversando Louise May Alcott, i gialli per i ragazzi della Mondadori, poi Cesare Pavese, Marguerite Youcernar, Useppe di Elsa Morante, Roland Barthes e Italo Calvino. Si sono aggiunti negli anni Emma Bovary e poi le decine di personaggi di Guerra e Pace di Lev Tolstoj. Ho riletto per i bambini di San Donato due anni fa, Il piccolo principe e la vita di Saint Exupery e daccapo è traboccato il cuore. Oggi sto alle prese con Jean Giono in quella favola che ognuno di noi potrebbe trasformare in realtà che è L’uomo che piantava gli alberi. La notte mi addormento con Levin e Kitti e Anna e Vronskij. Vivo fra Mosca e la campagna intorno. E con Anna siamo andate a stare a Roma per un po’. Sarò capace di volare? Mi faccio questa domanda mentre vedo il mondo che mi sta intorno che sprofonda in un abisso di idiozia. Se non sarò capace di volare, salterò camminerò striscerò. Ma queste linee di scrittura appartengono a chi me le ha tatuate sul cuore. A Cristina Campo a Emily Dickinson a Wislawa Szymborska. A Etty Hillesum. A mia madre che mi regalò a sette anni il mio primo libro: perchè facessi un cammino non perché restassi chiusa qui.


teresa ciulli

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