Ci piacciono i giardini. E i semi che a quei giardini, se ci credi e ne hai cura, ti conducono.
Sono giardini di storie. Quelle che troviamo ogni venerdì pomeriggio, quando ci incontriamo per leggere, nei libri. Ma giardini di storie sono anche le nostre vite, i nostri singoli destini che ogni venerdì, alla stessa ora, noi affacciamo su un cerchio dove sta al centro, un tavolo dipinto alcuni anni fa da noi stessi. Su quel tavolo poggiamo i libri, le cioccolate in inverno, la coca cola d’estate anche a se a me non piace. Da quel cerchio, da quel confine tu puoi vedere il nostro giardino. E alzandoti dalla sedia, entrarci dentro. A turno innaffiamo le piante che ci crescono, sono alberi sempre più alti e ombrosi, e a turno facciamo gli umili lavori che servono al giardino e a noi stessi. Leggere ad alta voce è la linfa che scorre in questo giardino. Liberiamo dalle voliere, senza che quelli facciano più ritorno, storie autori personaggi luoghi che girano ormai insieme a noi in questa città in cui facciamo crescere, pianopiano, come è d’obbligo per l’albero, una fraternità cucita con libri d’avventura.


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mercoledì 27 giugno 2007

La nostra unica imbarcazione


Se delle parole potessero sollevare le onde, queste, le solleverebbero.
Se potessero dare da mangiare ai pesci le parole, queste, li nutrirebbero.
Se potessero aggiungere il riflesso di una stella a quelle che ogni notte si specchiano nel Mediterraneo, queste parole, l’aggiungerebbero.
Se potessero accendere un faro in più, lungo la linea insidiosa e oscura della costa, queste parole l’accenderebbero.
Se potessero sedere accanto a chi, la notte, tenta l’avventura di un’altra vita anche solo una virgola più generosa di quella senza di cui è partito, quella virgola queste parole ce la metterebbero, senza pretenderla mai più.
Se potessero, queste parole, portare a nuoto e in salvo tutte le altre che in tutti gli idiomi sono state pronunciante in secoli di storia lungo queste rotte, esse certamente lo farebbero. Si aprirebbero come conchiglie una per una ad ospitare generazioni e secoli di storia che mettono i brividi, perché stanno tutte nei libri di storia. In quelli su cui abbiamo studiato fin da piccoli. Ci sono i fenici e i greci e i romani e poi i turchi e gli arabi e poi quelli che fecero la storia dell’età moderna e dello sviluppo ineguale: gli spagnoli i francesi gli inglesi. E poi ci sono anch’io, parola non ti dimenticare di me, di quella notte in riva al mare con tutte le costellazioni che mi cadevano addosso mentre il mare raschiava con quella voce irripetibile il confine del mio tempo e del suo. Senza fermarsi.
Se le parole potessero, anche il tempo potrebbero portarsi via. E restituirci quello che ci ha tolto per sempre. Ieri, la speranza.
Ma io non voglio che lei veramente vada via.
Se le parole potessero esse potrebbero portare a largo anche la vita di una bambina che non si compì.
Esse se volessero potrebbero fare cose in cinque minuti che noi non riusciremmo ad incrociare nemmeno in cento vite; perché esse la vita la posseggono tutta anche quella che ancora non c’è, quella che dovrà ancora aspettare l’allineamento di infinite coincidenze prima di vedere il suo filo di luce al fondo di un abbraccio da cui, se non ti sciogli, muori soffocato.
Perché l’amore se non ti fa nascere alla libertà non ti fa nascere affatto.
Alla libertà allora dedico questo viaggio. E la libertà queste parole portano come desiderio e come significato. Lo portano alle onde, alle stelle, ai pesci, alle balene, alle conchiglie, alle albe, alle bandiere delle navi e ai turisti che alloggiano al decimo piano della città galleggiante. Lo portano alle coste abusate e alle donne sepolte sotto alcuni metri di tessuto ostaggi di una fazione violenta di una nobile cultura che non consente loro di prendere la parola. E lo portano anche a quelle, esposte invece da una cinica valutazione commerciale, a non poter approfittare nemmeno di un centimetro di tessuto per coprire qualcosa che poi, davanti a loro figlio, avrebbero voluto tenere segreto. Perché la parola può, togliere peso, può, slacciare la penna e la pena, può, cercare una corrente profonda e abbastanza lontana che la restituisca a ciò per cui essa esiste: essa è la barca di carta su cui viaggiamo, in alto mare.

Teresa, Biblioteca Germinazioni


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