Ci piacciono i giardini. E i semi che a quei giardini, se ci credi e ne hai cura, ti conducono.
Sono giardini di storie. Quelle che troviamo ogni venerdì pomeriggio, quando ci incontriamo per leggere, nei libri. Ma giardini di storie sono anche le nostre vite, i nostri singoli destini che ogni venerdì, alla stessa ora, noi affacciamo su un cerchio dove sta al centro, un tavolo dipinto alcuni anni fa da noi stessi. Su quel tavolo poggiamo i libri, le cioccolate in inverno, la coca cola d’estate anche a se a me non piace. Da quel cerchio, da quel confine tu puoi vedere il nostro giardino. E alzandoti dalla sedia, entrarci dentro. A turno innaffiamo le piante che ci crescono, sono alberi sempre più alti e ombrosi, e a turno facciamo gli umili lavori che servono al giardino e a noi stessi. Leggere ad alta voce è la linfa che scorre in questo giardino. Liberiamo dalle voliere, senza che quelli facciano più ritorno, storie autori personaggi luoghi che girano ormai insieme a noi in questa città in cui facciamo crescere, pianopiano, come è d’obbligo per l’albero, una fraternità cucita con libri d’avventura.


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giovedì 1 giugno 2006

Con un indice

La voce di Erri De Luca concentrata e finalmente trasformata tutta quanta dentro la persona di Maria Teresa, come si concentra e trasforma un intero pasto dentro la pastiglia che mangia un astronauta si scioglie, piano piano, dentro il nostro cerchio perfetto. Come altro potrebbe essere altrimenti definito un cerchio, modesto di persone, che si sporgono nel vuoto nel baratro che comincia subito dopo i loro piedi per raccogliere da quel centro, da quello che provvisoriamente possiamo chiamare un pavimento, un libro. Così ha funzionato infatti per otto incontri la nostra compagine la nostra piccola combriccola di lettori. Ci siamo mischiati sotto le volte di pietra della libreria Ergot nel centro storico, a Lecce, ci siamo mischiati, noi alle rondini, che hanno cominciato ben presto a partecipare solo da fuori purtroppo ai nostri incontri, e ci siamo mischiati anche alla colonna sonora, estranea ai miei gusti veramente, di Simone, il proprietario della libreria insieme a sua moglie Claudia, anche lei una corona del nostro cerchio. Ci siamo mischiati i libri e le voci, e mischiate le abilità di lettura, e le biblioteche, e gli anni in cui ognuno, da solo, aveva incontrato un libro e ricordato per un giorno futuro che ancora non esisteva, una pagina. Abbiamo mischiato la nostra normalità e il nostro disagio con il disagio e la normalità di un altro e ne sono venuti fuori incontri affascinati e affascinanti e conferme al fatto che la linea che separa la normalità dalla follia è molto spesso solo una linea verbale: una piccola breve frontiera di parole cinque lettere: pazzo; cinque lettere, matto. E’ servito a ritrovarmi e a trovare; a riconoscermi e a riconoscere intorno a quel fulcro vuoto dove poggiavamo i libri una complicità da cugini cresciuti insieme. In quel centro su quel tavolo invisibile che ha sempre puntualmente e affidabilmente nascosto il vuoto che si abbatteva subito sotto il nostro assortimento di piedi, ognuno allungava la mano e sceglieva fra i titoli, fra le copertine, quello che lo stava attendendo da secoli da decenni da pochi mesi. All’interno poi ognuno ha trovato la traccia lasciata dalla mano dell’altro, la pagina selezionata dal segnalibro, e spesso il piccolo, o grande segno di matita, che marcava l’inizio e la fine del tempo anche quello circolare della parola. Ma, al penultimo incontro, il vuoto si è inaspettatamente rivelato: con la stessa meraviglia con cui si rivela agli astanti in seduta spiritica, l’assente. Maria Teresa leggeva Erri De Luca; un racconto dal libro Il contrario di uno. Avevamo chiesto a lei di leggerlo come forma di conciliazione: poco prima si era dimostrata irritata dallo scrittore, disincantata o addirittura peggio infastidita, seccata. Ha individuato lei il racconto incuriosita dal titolo, e seppure in contrasto con le regole della nostra enclave glielo abbiamo concesso perché a tutti noi preme preservare il piacere di leggere da sterili sofferenze. E’ stato così, all’interno di questi contesti di libri e di lettori in cui uno contiene l’altro e viceversa, che ho sentito un urto inspiegabile e violento: la sedia, e io sopra, cadere all’interno del cerchio. Una emozione violenta mi aveva tolto l’appoggio e una emozione altrettanto intensa me lo restituiva: uno strappo e ho smesso di cadere: ero stata imbracata anch’io, proprio come la giovane protagonista del racconto, da corde e da moschettoni prima di affrontare la salita la ripida parete affacciata sul nulla. Dondolavo sospesa in aria. La voce di Maria Teresa era la mia strada spalancata sul vuoto: la mia corda la mia imbracatura di parole. E io non guardavo giù né temevo per la mia vita né mi sentivo in pericolo: sapevo che se non avessi mollato l’attenzione se avessi seguito quel corteo nuziale di parole in volo nulla mi sarebbe accaduto se non arrivare all’arnia. Se non arrivare sulla cima. Luoghi dove possono accadere cose eccezionali. Come dondolarsi a pancia in giù aggrappata per un dito, l’indice, alla mano di chi tempo fa e in una stanza misteriosa impenetrabile al mio sguardo e in una condizione essenziale e vitale profondamente lontana da me e di cui in fondo non mi interessa sapere, scrisse. Ma quella mano è diventata voce canto modulazione pausa ripensamento correzione e di nuovo ora va in corsa veloce si arrampica anche lei sulla parete del racconto anche lei la voce, la mia, la sua, la tua, la nostra: che la trattiene un po’ prima di liberarla e lasciarla andare come una colomba verso il centro della comprensione. E dunque sono attaccata con l’indice alla mano di chi scrisse e alla mano di chi adesso, legge. E so che quel dito contiene più sapienza degli altri. E più forza degli altri nove.

Teresa Ciulli

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