Ci piacciono i giardini. E i semi che a quei giardini, se ci credi e ne hai cura, ti conducono.
Sono giardini di storie. Quelle che troviamo ogni venerdì pomeriggio, quando ci incontriamo per leggere, nei libri. Ma giardini di storie sono anche le nostre vite, i nostri singoli destini che ogni venerdì, alla stessa ora, noi affacciamo su un cerchio dove sta al centro, un tavolo dipinto alcuni anni fa da noi stessi. Su quel tavolo poggiamo i libri, le cioccolate in inverno, la coca cola d’estate anche a se a me non piace. Da quel cerchio, da quel confine tu puoi vedere il nostro giardino. E alzandoti dalla sedia, entrarci dentro. A turno innaffiamo le piante che ci crescono, sono alberi sempre più alti e ombrosi, e a turno facciamo gli umili lavori che servono al giardino e a noi stessi. Leggere ad alta voce è la linfa che scorre in questo giardino. Liberiamo dalle voliere, senza che quelli facciano più ritorno, storie autori personaggi luoghi che girano ormai insieme a noi in questa città in cui facciamo crescere, pianopiano, come è d’obbligo per l’albero, una fraternità cucita con libri d’avventura.


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giovedì 19 luglio 2007

Fuori rotta

Se una bottiglia fosse un’isola le mani di coloro che annaspano cercando riparo alla loro vita senza più futuro potrebbero avere una patria. Un luogo dove non è necessario avere una carta di identità per esistere.
Se una bottiglia fosse un’isola essa sarebbe pure circondata dal mare e dunque le infinite specie che popolano il Mediterraneo sarebbero salve perché lì nessuno si sognerebbe di venirle a pescare senza rispetto delle regole che gli uomini si sono dati per rubare al mare. E nessun peschereccio si sognerebbe di pescare intorno a te, bottiglia.
Se a una bottiglia si potesse consegnare davvero il nostro desiderio di tenere a battesimo le lingue dei poeti come se esse nascessero tutte e tutte insieme oggi, e come se quella lingua originata da una potente aderenza della vita al suo luogo e al suo corpo e alla sua storia, e al suo inestinguibile desiderio di infinito, potesse davvero come una mano che cura le ferite, curare medicare risanare, facile sarebbe seminare di poesia il mare anche se noi di certo, e non i comandanti delle navi che scaricano al largo i prodotti di lavaggio delle cisterne e i cestini dei rifiuti delle crociere, saremmo incriminati di danno ambientale. Per avere lasciato andare poesia in una bottiglia. Alla deriva.
Ma è la cultura, tutta, alla deriva. Da essa non dipendono più i gusti lo stile di vita le abitudini e, danno insanabile, le politiche: solo da una sua cattiva parodia che nasconde il desiderio di potere e di dominio dell’uomo e delle comunità sull’altro, sugli altri. Dapprima il potere degli uomini sulle donne e poi degli adulti sui bambini, e poi quello di un gruppo sugli altri. E senza andare a cercare troppo lontano, di noi, del nostro gruppo storico e sociale, del ricco Occidente, sul resto del mondo.
Se una bottiglia fosse davvero un’isola noi saremmo tutti imbarcati qui. Naufraghi di una biblioteca di Lecce che fa della diversità e della difficoltà il suo territorio di caccia. Di esperienza davanti a una porta senza serratura. Perché a volte basta solo spingere, e quella, si apre. Alla bottiglia affidiamo qualcosa di insignificante di modesto di piccolo. Essa porta a galleggiare fra le onde e i grandi pesci e gli enormi villaggi galleggianti di chi sta in crociera e i pescherecci pieni di nord africani in cerca di una vita, la propria, un desiderio di giustizia. E’ un mare pieno di sangue ormai. E di urla. Un mare vuoto. Qualcosa bisbiglia fra le onde ssh. Una bottiglia recita a memoria la sua poesia in un pugno di lingue: sembra stia pregando l’uomo dove l’uomo non c’è più ma solo i suoi danni le sue vittime i suoi vizi; i suoi cimiteri. Ma se anche una delle bottiglie riuscisse ad approdare altrove e se anche una delle bottiglie fosse trovata non importa quando, noi potremmo dire, ne vale la pena. E’ un gioco di parole su cui sta issata una bandiera. Bianca, come l’onda come la nuvola come la speranza che è l’ultimo lembo di terra ed è il primo, ma dall’altra parte.

Teresa Ciulli


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