Ci piacciono i giardini. E i semi che a quei giardini, se ci credi e ne hai cura, ti conducono.
Sono giardini di storie. Quelle che troviamo ogni venerdì pomeriggio, quando ci incontriamo per leggere, nei libri. Ma giardini di storie sono anche le nostre vite, i nostri singoli destini che ogni venerdì, alla stessa ora, noi affacciamo su un cerchio dove sta al centro, un tavolo dipinto alcuni anni fa da noi stessi. Su quel tavolo poggiamo i libri, le cioccolate in inverno, la coca cola d’estate anche a se a me non piace. Da quel cerchio, da quel confine tu puoi vedere il nostro giardino. E alzandoti dalla sedia, entrarci dentro. A turno innaffiamo le piante che ci crescono, sono alberi sempre più alti e ombrosi, e a turno facciamo gli umili lavori che servono al giardino e a noi stessi. Leggere ad alta voce è la linfa che scorre in questo giardino. Liberiamo dalle voliere, senza che quelli facciano più ritorno, storie autori personaggi luoghi che girano ormai insieme a noi in questa città in cui facciamo crescere, pianopiano, come è d’obbligo per l’albero, una fraternità cucita con libri d’avventura.


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lunedì 29 novembre 2010









dalla mia macchina fotografica sono usciti alcuni frammenti del tempo e del lavoro che abbiamo dedicato alla costruzione del laboratorio sugli Aspiranti giganti. Li appoggio dentro questo nostro spazio collettivo. Aggiungo a questi scatti casuali quanto invece ho scritto intenzionalmente per il quotidiano Paese Nuovo. Un articolo che chiude, per iscritto e dal mio personale punto di vista, i giorni che abbiamo dedicato a questo progetto.



Dare i numeri


Novantacinque gli aspiranti giganti che ho conosciuto. Bambine, bambini, fra i cinque e gli undici anni. Troppa differenza d’età. E’ vero. I quattro laboratori che ho condotto per conto dell’associazione culturale e Presidio del libro Germinazioni alla Biblioteca Provinciale di Lecce erano dedicati nelle intenzioni alle ragazze e ai ragazzi di dieci anni. Ma non sempre abbiamo la forza di opporci al pulviscolo di ragioni che in ogni campo e in ogni momento arrivano come sciami di api a creare i presupposti di una deroga e poi di due di tre e poi, di tutte le decisioni prese. Questa è stata la prima ma non sola debolezza, la mia, su cui si è comunque costruito cucito narrato il ciclo degli appuntamenti dedicati, sono stati quattro, agli aspiranti giganti, recintati da un quinto appuntamento dedicato invece agli aspiranti Pollicino, un laboratorio immaginato per trenta adulti desiderosi di tornare per due ore alla ricchezza magmatica dell’infanzia. Alla sua pluripotenzialità. Come suggello infine a tutto questo, l’incontro del 20 novembre, dove ai pochi ma buoni ospiti intervenuti, abbiamo mostrato ciò che di questo faticoso processo era rimasto. Le scarpe dei giganti sulle loro suole, il libro d’artista dei quattro appuntamenti con i bambini; il bel quaderno che tiene raccolto tutto il materiale che mi/ci è servito ad arrivare pronti a questi cinque incontri, e diversi files video su alcuni aspetti o dettagli: pezzi di questi incontri nella Piazza dei Diritti dell’infanzia. Che queste attività sono accadute a Lecce come in molte città e paesi della Puglia grazie a un finanziamento speciale. L’assessorato al Sud e al Diritto allo Studio della nostra regione ha chiesto alle Biblioteche pubbliche di collaborare con la rete dei Presidi del libro per progettare attività, laboratori, approfondimenti sulla Convenzione dell’ONU, una carta di 54 articoli di cui 35 riguardano strettamente i bambini, il cui valore per l’umanità è dato dal fatto che questa Carta è condivisa da 192 paesi del mondo, tranne dagli U.S.A. dove vige in alcuni Stati ancora la pena di morte e dalla Somalia. Il 20 novembre di quest’anno la Convenzione ha festeggiato ventuno anni. Coinvolti come Presidio del libro dalla Biblioteca provinciale, in questa progettazione ci siamo buttati in sei, veri kamikaze a favore dell’infanzia, in un percorso che è parso subito complicato. Eppure lo abbiamo voluto fare accadere: Luca Barba, io, Annarita Gabellone, Enrico e Valentina Sansò, padre e figlia, Umberto Savoia. Insieme a Piero Rapanà del Presidio del libro Fondo Verri. Ci siamo dapprima cimentati con la costruzione delle scarpe dei giganti, trenta paia di grandi scarpe in cartapesta, trentadue alla fine, metti che se ne rompe qualcuna. Cioè otto calchi di gesso fatti da Enrico, che ogni singola scarpa era assemblata a partire da due metà. Cioè centoventotto metà scarpe che sono state dapprima ricostruite con carta e colla dentro il calco e poi assemblate. Enrico e Annarita in questa fase sono stati i veri indimenticabili giganti. Senza il loro umile lavoro, la loro buona lena, soprattutto il loro buon umore, non ci sarebbe stata nessuna storia a seguire. E non ci sarebbe a questo punto niente da leggere. Invece. Invece ecco le scarpe. Enrico immagina come ci montiamo sotto le suole, quelle trentacinque suole di cartone, ognuna che porta scritta un diritto, così che le ragazze e i ragazzi sappiano quali sono, uno per uno. In onore all’articolo 42 che fa obbligo agli Stati di divulgare fra i grandi e i piccoli i contenuti della Carta. Sapere è il primo gradino il primo piolo della scala che se sali ti porta a vedere oltre e altrimenti che questo presente qua. Le suole sono state una spinosa questione. Trentacinque per trentadue fa novecentosettanta piante di cartone, alte ciascuna quattro millimetri. Una diga. Perché non abbiamo arretrato, perché non abbiamo issato bandiera bianca e dichiarati arresi? Ancora non lo so. Manca una riunione fra noi a chiudere il bilancio, terribilmente passivo dal punto di vista del rapporto tempo/guadagno, di questo progetto passato a dare valore spazio visibilità e dimensione cognitiva alla Carta dei diritti. Una lista di principi che sembrano appartenere a una dimensione teoretica filosofica morale e invece sono il livello elementare delle relazioni fra le generazioni: il terraterra dell’esistenza. E da lì poi ti alzi in piedi cominci a camminare cresci ti fai alto, grande. Anche io sono cresciuta: sulle spalle della mia disavventura, sulle spalle dei miei errori, sulle spalle delle cose che mi sono uscite sgraziate, male, sulle scivolate che ho preso sulla buccia di banana della presunzione: che quelle bucce sempre mi aspettano quando, presa da me stessa, non guardo per terra. Ma nemmeno davanti. Eccomi qui dunque a consegnare in parte, nella parte che desidero condividere, la mia testimonianza su una esperienza eccezionale. Una eccezione sì, non una regola. Perché eccezionale il racconto di Gianni Rodari che ha innescato questo progetto, la sua idea portante: la storia di Teresin che non cresceva che ci ha consentito di fare la spola fra noi e i bambini fra noi e la Carta fra noi e la Biblioteca; eccezionale lo sforzo durato circa un mese delle persone che ho elencato e in particolare il grande sforzo di Annarita ed Enrico e mio nella fase finale; eccezionale il tema, sì, la Carta dei diritti e il luogo, la sede nuova della Biblioteca provinciale di Lecce nella fattispecie il bellissimo teatrino; teatro dei nostri incontri. Là abbiamo dato appuntamento, in cinque diverse date, a novantacinque aspiranti giganti e diciotto aspiranti Pollicino: vi hanno trovato una piazza di carta tagliata per lungo, testimone e custode degli incontri, da una strada di quindici metri dove Valentina ha montato, scritto grande e in lingua bambina, gli articoli della Convenzione. Eccezionale lo sforzo che ha portato all’allestimento delle trentadue scarpe e delle terntacinque suole, una per diritto, che ogni bambina, bambino, ha montato sotto le ciabatte dei giganti per diventare più alta, più alto. Ogni scarpa portava disegnata una colomba che a sua volta portava nel becco un francobollo, un territorio. Li ho stappati da un vecchio atlante geografico. Ci ha studiato sopra un certo Marco Maldera a Trieste nel 1935. Le ho strappate anche da una carta stradale d’Europa consultata negli anni sessanta e settanta dal papà di Valentina. Mi serviva la geografia per far fare ai bambini i loro passi nel mondo. Un attimo e sei in America, in Australia, a Rimini. Ad Ancona e Torino. O nel mezzo dell’Oceano. Da quel volo di colomba sono partita per poggiarmi sulle vite dei bambini; sul passato che lascia continue tracce, su Agata Diakoviez, sul cui nome gli aggettivi scivolano perché lei non sta ferma mai pur stando sempre al suo posto, è un’amica, libraia a Bisceglie, che ci ha portato durante l’incontro dedicato agli adulti trenta begli albi illustrati per suggerirci fra l’altro quanto l’arte, chiusa in questi libri che a malapena guardiamo, può restituirci chiarezza stupore meraviglia: restituirci lo specchio in cui trovare il nostro volto bambino e re-alizzare un incontro altrimenti vietatissimo. Ecco, quella colomba, alla fine di questo percorso ma solo alla fine però, dopo che ho fatto a gara contro il tempo per poter ogni giorno portare ai bambini che incontravo in biblioteca delle pagine sempre nuove, di disegni di grafica di grandi personaggi da cucire nella carta e nella narrazione insieme a Teresin , insieme a loro stessi e pure alla Carta, alla fine quella colomba si poggia oggi su di me. A cose chiuse finite: licenziate. E’ qui di fianco a me mentre termino per Paese Nuovo questo racconto. E’ qui la colomba perché riconosco gli errori che ho commesso, di hybris direbbero i greci, di orgoglio di presunzione. Per arrivare a fare una cosa bella ho reso meno bello il mio quotidiano. Quello mio di me, di Teresa. Fatto venire l’ansia il fiatone, al legame con i figli il marito, me stessa. Ho mancato di misura grandemente. Sono stata ingiusta. E questo ha valore eccome. Ecco perché la colomba si è potuta poggiare sulla mia scrivania adesso. Uno, come dice Agata, la felicità non la trova fuori di sé. Non sta da nessuna parte. Non sta negli allestimenti degli aspiranti giganti né nelle pagine belle né nel racconto di Teresin che non cresce. La felicità se sta, sta nella capacità di ognuno di noi di essere giusto, di esercitare giustizia. E ci tocca farlo prima verso noi stessi. Perdono è la parola che la colomba becca come un seme dalla mia scrivania, questa dove poggio i gomiti mentre scrivo. Apro la finestra: porta la parola agli amici di Germinazione, a Piero Rapanà del Fondo Verri. So che Valentina che è la mamma di Germinazioni la pianterà insieme ai bulbi di tulipani fra i doveri che gli aspiranti Pollicino intendono alimentare in questi mesi, anni a venire. Quel vaso sta insieme ad altri tre, dove stanno piantati i diritti che i bambini alla fine dei nostri incontri, hanno scelto di coltivare. Chi si assume il dovere di esercitare giustizia fa nascere altrove, nel vaso a fianco, un diritto senza averlo assolutamente piantato. E’ il valore misterioso, creativo, culturale, dell’azione umana. Tu fai una cosa e altrove, grazie a quella cosa a quel gesto quel fare, ne sboccia un’altra. Tu fa una cosa giusta e altrove e lontano da qui da te, oppure più vicino, un diritto due tre si celebrano, nella vita degli altri.

Teresa Ciulli, 25 novembre 2010

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