Ci piacciono i giardini. E i semi che a quei giardini, se ci credi e ne hai cura, ti conducono.
Sono giardini di storie. Quelle che troviamo ogni venerdì pomeriggio, quando ci incontriamo per leggere, nei libri. Ma giardini di storie sono anche le nostre vite, i nostri singoli destini che ogni venerdì, alla stessa ora, noi affacciamo su un cerchio dove sta al centro, un tavolo dipinto alcuni anni fa da noi stessi. Su quel tavolo poggiamo i libri, le cioccolate in inverno, la coca cola d’estate anche a se a me non piace. Da quel cerchio, da quel confine tu puoi vedere il nostro giardino. E alzandoti dalla sedia, entrarci dentro. A turno innaffiamo le piante che ci crescono, sono alberi sempre più alti e ombrosi, e a turno facciamo gli umili lavori che servono al giardino e a noi stessi. Leggere ad alta voce è la linfa che scorre in questo giardino. Liberiamo dalle voliere, senza che quelli facciano più ritorno, storie autori personaggi luoghi che girano ormai insieme a noi in questa città in cui facciamo crescere, pianopiano, come è d’obbligo per l’albero, una fraternità cucita con libri d’avventura.


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mercoledì 10 settembre 2008

Lo strano caso del ritorno dell’Ofisauro

Il ritorno dell’Ofisauro è un libro, un’opera prima di poesia. Valentina che ne curò qualche mese fa maniacalmente la grafica e l’impaginazione scoprì dopo averlo ritirato dalla tipografia che quello le si era, e mica a lei sola, ma al tipografo all’editore all’autore, e al virtuale lettore, rivoltato contro. Una vera e propria ribellione del libro nei confronti della stampa, così lei lo ha vissuto; così ce lo ha raccontato. Una rivoluzione operata dal testo contro l’universo delle persone che a vario, e molteplice titolo, gli stanno addosso. A cominciare dal suo autore certamente, che forse ci ha investito anni del suo desiderio e del suo sforzo; a seguire l’editore che quando funziona come imprenditore ci rischia dei soldi, tanti; al grafico che lo deve portare nelle sue dita per un po’ di tempo; al tipografo a cui è affidata la nascita, in una clinica piena di gente e di macchine. Fino a che arriva al lettore, ultimo fruitore di questa catena e di nuovo il primo di un’altra circolarità: quella che porterà il libro a vivere come libro, per sempre. Dentro decine e decine di case differenti, mischiandosi alla vita delle persone, sia di quelle che definiamo belle sia di quelle che ci paiono brutte: pericolose apparenze? Insomma quel segmento della vita del libro che lo istituzionalizza come tale e lo consegna alle più differenti librerie private, da quelle che consistono in un’unica mensola sovraccarica a quelle di mogano nero con la vetrina davanti e la chiave nella toppa, girata. E fra questi due estremi l’immensa varietà del vivente, in forma di scaffale: colore, forma, altezza, posizione, piedino o no, contiguità con altro, ordine o disordine. Bene, questo libro di Gioia Perrone ha una sua importanza perché a tutto questo sistema si è ribellato. E’ davvero il ritorno dell’Ofisauro. Di quell’animale esistito due miliardi di anni fa ma di cui non resta traccia se non in un gesto: una negazione senza appello. L’Ofisauro dice No. E’stupido veramente perché dice solo no, ma in alcuni periodi storici, in alcuni condizioni del tempo della vita questa sillaba è una illuminazione. Somiglia a una palla di bowling lanciata sul tappeto di metallo che riesce, bravo chi l’ha tirata, a far cadere giù tutti i birilli, tutti. E dopo, quando quelli sono giù per terra, oh era ora, vedi il vuoto il niente lo zero. Quel vuoto vogliamo. Vogliamo quell’annullamento delle cose, lo desideriamo; perchè quel silenzio quella ribellione a tutto quel castello di destini incrociati, ciao Italo, ci è necessario, anzi, vitale. Prego, lasciateci senza Festa dei Lettori per un po’; lasciateci senza promozione di libri per un po’. Lasciateci senza disegni, lasciateci respirare. Lasciateci stare. Lasciateci leggere la rubrica telefonica e sentire il suono dei nomi e cognomi nelle orecchie; da soli in compagnia a scuola o al conservatorio di Sant’Anna. Lasciate che di questa pratica esista solo e rigorosamente il gioco. Senza scatola di cartone naturalmente. Recitare con voce impostata, alla Nando Gazzolo per intenderci, A&A Software house, che è il primo nome nell’elenco della mia città e poi proseguire ma con un ritmo più vivace, senza che perda importanza no, quella corteccia sonora dentro cui i nomi, tutti nomi del vocabolario, e dell’elenco telefonico, e dei libri, e dei manuali scolastici, e del libretto di istruzione del forno a microonde, sono collocati; la loro pelliccia esterna che può far diventare liscia ruvida morbida, bianca, scura, soffice o dura, timida, sguaiata, la sostanza l’esperienza la fragilità il tempo che quella corteccia custodisce e protegge. Isola e copre come la mano fa con il cerino acceso, controvento. Ogni nome un brivido dietro la schiena, come se fosse un serial killer a pronunciarlo, l’ultima volta. Giocare vogliamo con i nomi e con le parole impazzite e uscite fuori dai cardini del libro di Gioia. Vogliamo diventare e trasformarci in Ofisauro, ognuno di noi, il giorno in cui qualcuno celebra in tutta Italia una festa che sta assumendo, noooo, è l’urlo che ci esce, un carattere troppo istituzionale. Noi non vogliamo far bene, vogliamo prenderci in giro. E prendere in giro. Lo possiamo fare lo dobbiamo fare. I luoghi del cuore farli diventare irraggiungibili. Non farli vedere difenderli con le unghie, creare depistaggi. Troppa comunicazione non coincide con la crescita della conoscenza, l’informazione spesso non è sapere ma un pericoloso rumore di fondo che somiglia all’arrivo di un drammatico terremoto: il tutto il tanto il troppo la quantità senza filtro in cui viviamo produce una ignoranza collettiva dalle forme pachidermiche e mostruose. Fuori dal circo, a porte chiuse a festa finita, solo dopo il 27 settembre, in un silenzio che neppure una goccia d’acqua che cade dal rubinetto può varcare, possiamo ritornare con la mente a ciò che in questa vita un libro in mano ci ha dato: fatti franare dentro. Non lo dire non lo dire non lo dire. Per quest’anno che viene non lo dire, tienitelo per te. Per quest’anno ti prego fai come me come noi, fai l’Ofisauro e non farti leggere dentro.

Teresa Ciulli per l’Associazione culturale Germinazioni
29 agosto 2008

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