Ci piacciono i giardini. E i semi che a quei giardini, se ci credi e ne hai cura, ti conducono.
Sono giardini di storie. Quelle che troviamo ogni venerdì pomeriggio, quando ci incontriamo per leggere, nei libri. Ma giardini di storie sono anche le nostre vite, i nostri singoli destini che ogni venerdì, alla stessa ora, noi affacciamo su un cerchio dove sta al centro, un tavolo dipinto alcuni anni fa da noi stessi. Su quel tavolo poggiamo i libri, le cioccolate in inverno, la coca cola d’estate anche a se a me non piace. Da quel cerchio, da quel confine tu puoi vedere il nostro giardino. E alzandoti dalla sedia, entrarci dentro. A turno innaffiamo le piante che ci crescono, sono alberi sempre più alti e ombrosi, e a turno facciamo gli umili lavori che servono al giardino e a noi stessi. Leggere ad alta voce è la linfa che scorre in questo giardino. Liberiamo dalle voliere, senza che quelli facciano più ritorno, storie autori personaggi luoghi che girano ormai insieme a noi in questa città in cui facciamo crescere, pianopiano, come è d’obbligo per l’albero, una fraternità cucita con libri d’avventura.


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venerdì 2 maggio 2008

Considerazione a margine della visione de Il sacro segno dei mostri” di Danio Manfredini

Lo spettacolo? Non serve!
di Mauro Marino

La parola del teatro, è parola ferma, netta. Unica: ciò che è detto, è detto!
Nell’ “infilata” si scrive il senso, frase dopo frase lo si chiarifica. Si dispiega la necessità.
Se tutto nasce da un’interrogazione, una volta giunti sulle “tavole”, si costruisce la risposta, la verità. Quella degli attori col loro agire e quella “ideologica” del testo.
Una sola interrogazione, un solo dubbio, è destinato al pubblico ne “Il sacro segno dei mostri”, la domanda, che con grande peso viene posta sul finire: “ a cosa serve fare gli spettacoli?”. La risposta, subito dopo, in scena è: “a niente!”.
Un’interrogazione da epilogo! Epitaffio per un mondo che sembra vivere solo di questo. Sedotto, compromesso, simbiotico, esso stesso solo spettacolo.
Rappresentarsi è il dettato.
Rimbomba quel punto di domanda, t’insegue, torna a sipario chiuso. Un leggero velatino, scende come una palpebra, si ri-chiude su una vicenda densamente autobiografica popolata dalla follia con tutti i suoi climi psichiatrici. Dalla “pax” di una ilarità sontuosamente sboccata, al deliro del tutto in malora, delle urla, del pianto, del “non ne posso più”.
Ma qual è il senso di quel chiedersi? Detto da dove è detto, lanciato da un palcoscenico? E’ il teatro che chiede, solo, sperduto col suo “denudamento”. A cosa serve lo spettacolo se non c’è condivisione, amore, comprensione?
La scena che Danio Manfredini costruisce è chiara: un interno con molte aperture di luce. Il giorno, con le sue temperature mostra la sala di una comunità psichiatrica. Ogni apertura porta dentro un anima. Una “anima tragica” che viene al cospetto a dire il suo male, inascoltata.
“Ho bisogno di protezione” dice una.
Tutti noi abbiamo bisogno di protezione. La follia è condizione comune. Tutto appare nel suo limite. Solo li, dove la follia è manifesta, nominata, domata: “E’ tutto un pompaggio e poi esci di cotenna”. Soli li, trovi il sublime, s’invera la purezza drammatica del dolore.
L’ “operatore” è l’ogetto d’amore, il mediatore, il neutro servitore che accudisce, prepara, accoglie. C’è lui tra il dentro e il fuori. Presente, nell’impossibilità, senza alcun potere se non quello del dono creativo. Sul limine della medicalizzazione.
C’è uno che dice, chiamando al telefono: “Pronto Vaticano? Ho una certa urgenza di parlare con il Papa!”. Ma il Papa non c’è, non risponde. Non parla il potere, non corrisponde! Parla lui soltanto, fa il dettato delle regole, del si può e il non si può. Il resto è “la famiglia umana”.
“Germogliavamo” dice qualcuno in scena ma “siamo come dei fiori spenti”.
“Ho amore e speranza” è che “manco di carità, è un pianto, un pianto”. Ecco, manchiamo di carità, di com-passione.
Questo è tutto. Tutto qui! Lo spettacolo non serve.

[Danio Manfredini (foto di MM). In alto, autoritratto 'al presente']

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